Si può rispondere penalmente dell’errore altrui?
È questa la domanda che ricorre sovente nell’ambito di quei contesti organizzativi che la letteratura sociologica ha denominato “strutture multidisciplinari complesse”, ossia forme di organizzazione in cui operano sinergicamente una pluralità di soggetti aventi differenti competenze tecnico-scientifiche, sulla cui base è ripartita la gestione del rischio tra gli operatori. Tale è l’attività medica, che viene spesso esercitata in équipe per perseguire efficacemente la cura del paziente, tramite la divisione dei compiti tra più sanitari “in senso orizzontale”, ossia la ripartizione di più competenze professionali qualitativamente diversificate.
L’attività medica in équipe può avvenire secondo due modalità: quella cd. sincronica, in cui i medici agiscono nel medesimo contesto temporale; e quella diacronica, più frequente, ove le attività professionali differenti si intersecano reciprocamente, ma vengono esercitate in momenti temporalmente successivi.
In entrambi i casi opera il principio di affidamento, nel senso che ogni medico che coopera fa affidamento sulla diligenza, prudenza e perizia dell’altro, essendo opportuno che ogni compartecipe possa concentrarsi sulla propria attività, confidando nella professionalità degli altri, della cui condotta colposa non può essere chiamato a rispondere per assenza, almeno in linea di principio, di una posizione di garanzia. Il principio di affidamento trova giustificazione alla luce dell’elevato tecnicismo delle competenze specialistiche di ciascun medico, tali per cui, gli altri componenti dell’équipe, possono non essere in grado di rilevare l’errore altrui. Se in via generale, non si configura l’obbligo del medico in équipe di controllare l’attività degli altri sanitari e quindi l’obbligo di impedire l’errore altrui, ci sono tuttavia delle eccezioni; ci sono cioè dei casi in cui i componenti dell’équipe, oltre ad essere tenuti per la propria parte al rispetto delle regole di cautela e delle leges artis previste con riferimento alle loro specifiche mansioni, devono anche farsi carico delle manchevolezze dell’altro componente dell’équipe, sorgendo in capo ad essi una posizione di garanzia, per la quale potranno rispondere della condotta colposa altrui secondo il modello della causalità omissiva (omesso controllo e omesso impedimento dell’errore).
1)L’errore non specialistico e manifesto
Quando la condotta colposa si concretizza nell’inosservanza delle leges artis che costituiscono il bagaglio professionale di ciascun medico, l’errore non è settoriale, per cui è percepibile da qualsiasi sanitario, a prescindere dal settore di competenza. In questi casi, il medico, potendo rilevare la correttezza dell’attività medica (precedente o contestuale) altrui, ha l’obbligo di impedire l’evento, e quindi risponde del reato colposo per non aver rilevato un errore prevedibile e per non evitato l’evento.
2)Collaborazione gerarchica: il capo équipe e il primario
Il medico in posizione apicale, sulla base della disciplina di settore attualmente vigente, ha, oltre che compiti medico-chirurgici propri, anche l’obbligo di dividere il lavoro fra sé e gli altri medici del reparto e di verificare che le direttive e istruzioni che impartisce (relativamente alle prestazioni di diagnosi e cura che devono essere effettuate) siano correttamente attuate. Dunque, il medico in posizione apicale può rispondere per aver concausato colposamente l’evento infausto, o per l’inadeguata divisione del lavoro, ovvero per l’omesso controllo sulla condotta altrui. Tuttavia non si tratta di una responsabilità oggettiva “da mera posizione” dovendo tale responsabilità pur sempre fondarsi su un giudizio di rimproverabilità soggettiva, attraverso i criteri propri dell’accertamento della responsabilità colposa.
Un recente caso giudiziario
Riportando quanto detto sinora sul piano delle concretezze, si analizza un recente caso giudiziario.
Appare opportuno premettere che a più sanitari (tre ginecologi, un chirurgo, e due anestesisti-rianimatori) è stato contestato dal Pubblico Ministero l'avere, in cooperazione colposa tra di loro, causato la morte di una donna, sottoposta a taglio cesareo e successiva isterectomia, in particolare per avere omesso, pur in presenza di shock emorragico conseguente a parto cesareo con placenta accreta, cioè patologicamente aderente all'utero, di trasfondere plasma fresco per correggere il difetto di caoagulazione e per avere ritardato il ricovero della donna in ospedale dotato di reparto di rianimazione, con decesso della donna avvenuto presso l'ospedale di Palermo il giorno seguente all’intervento. Segnatamente, tale emorragia in concreto fu inarrestabile, a nulla valendo né la sutura della lesione vescicale né la isterectomia parziale né la trasfusione con l'unica sacca di plasma che era disponibile nella struttura sanitaria.
In una situazione emergenziale confusa, e con la situazione della paziente che stava degenerando, pur essendo già presente in sala operatoria un'equipe completa composta - anche da - ginecologo (la ginecologia è disciplina chirurgica) e da anestesista, vennero chiamati in ausilio dai colleghi, siccome presenti in ospedale, un ginecologo ed un chirurgo (la cui responsabilità è qui oggetto di analisi) che si resero disponibili a collaborare con i colleghi già presenti in sala operatoria, per portare a termine l'isterectomia, già concretamente iniziata. I due sanitari, sia pure chiamati d'urgenza, in ragione della loro maggiore competenza professionale, collaborando concretamente nell'isterectomia, peraltro l’uno riuscendo a bloccare (anche se solo temporaneamente) l'emorragia che era in corso, e l’altro anche nella sutura della lesione vescicale, dimostra che i due non si sono limitati a dispensare semplici consigli ma hanno, in realtà, preso in mano le redini della situazione, in pratica sostituendosi ai colleghi ginecologi-chirurghi che non erano stati in grado di gestirla.
In ragione dell'onere di collaborazione, in giurisprudenza più volte affermato, e di controllo dell'operato degli interventi dell'equipe, fino all'intervento correttivo su errori evidenti e non settoriali, quale sarebbe la gestione dell'emorragia post-partum, alla stregua delle linee-guida che il chirurgo e il ginecologo a causa delle rispettive specializzazioni non solo dovevano conoscere ma anche avevano l'obbligo seguire, a prescindere dalle decisioni terapeutiche e trattamentali adottate dagli altri sanitari, proprio in virtù della surriferita posizione di garanzia assunta nei confronti della paziente.