Il danno estetico: aspetti da valutare per il risarcimento

Il danno estetico rientra nella categoria del danno biologico quale “sottospecie” del danno non patrimoniale, inteso come danno all’integrità psico-fisica della persona e rappresenta la tipologia di lesione più complicata da valutare atteso la sua elevata variabilità soggettiva delle alterazioni fisionomiche; invero, sarà necessario valutare non solo i danni all’integrità morfologica della persona, ma anche le alterazioni della sua capacità espressiva e della sua rappresentazione esterna delle proprie caratteristiche e personalità.

Il medico legale, pertanto, non potrà affidarsi a parametri valutativi prefissati ma dovrà valutare ogni singolo aspetto della situazione in cui versa il danneggiato, l’età, il sesso e la condizione fisica precedente all’evento lesivo. Nella perizia medico legale andranno valutate le alterazioni anatomiche oggettive e la sede delle stesse, non confinata solamente al viso, tenendo anche conto della evoluzione e sviluppo che possono avere tali lesioni nel tempo, soprattutto in soggetti minorenni, quindi ancora in età di sviluppo. Nella visita si dovrà determinare la presenza di ulteriori difetti funzionali (visivi, respiratori ecc.) patiti dal soggetto a causa del danno biologico di rilevanza estetica.

Inoltre, nel caso di danno estetico cagionato a soggetti che lavorano con la propria immagine (fotomodelli, attori ecc.) il danno fisionomico diventa un danno patrimoniale vero e proprio per lucro cessante, calcolabile con lo stesso meccanismo della riduzione della capacità lavorativa specifica.

Fatta tale premessa, andiamo ora ad esaminare un fatto accaduto realmente, oggetto di un’importante pronuncia della Corte di Cassazione, che può chiarirci come nella realtà venga liquidato il danno estetico e come debba essere provato. La vicenda da cui trae origine la sentenza in commento è la seguente: successivamente a un intervento – malriuscito - di liposuzione delle cosce, rinoplastica e ingrandimento del seno, una ragazza riportava la presenza di cicatrici deturpanti. La donna conveniva il medico e la clinica per vedersi riconoscere il risarcimento dei danni, per poi ricorrere avverso la Cassazione contro la decisione della Corte D’Appello per contestare la mancata valutazione equitativa del danno da perdita di chance: il danno deriverebbe dalla preclusione per la stessa della carriera di indossatrice e dimostratrice di capi d’abbigliamento, sulla quale avrebbero inciso sia i residui cicatriziali, sia la grave malattia psichica di tipo depressivo. In secondo luogo contestava la mancata considerazione, ai fini della valutazione del danno non patrimoniale, del danno alla vita di relazione, la cui incidenza sul danno biologico è stata valutata dalla C.T.U. nella misura del 50%.

Per quanto attiene alla risarcibilità del danno patrimoniale, la Cassazione conferma la valutazione dal giudice di merito, in riferimento all’onere dell’attrice di fornire elementi obiettivi di valutazione dell’entità dei suoi guadagni all’epoca dei fatti di causa e dei suoi contatti e della sua introduzione nel mondo della moda sulle possibile perdite al fine di consentire un giudizio prognostico sulle possibili perdite derivate dall’intervento chirurgico. Non veniva infatti provato dalla danneggiata che lavorasse realmente come modella, non essendo conosciuti i compensi percepiti, le sue quotazioni come modella, il che precludeva la quantificazione del guadagno.

Con riferimento alla valutazione del danno non patrimoniale, anche su questo punto la Cassazione conferma la decisione della Corte D’Appello, considerando che le traversie sopportate per effetto degli interventi  chirurgici,  oltre  che  provocare  tracce  somatiche  antiestetiche, hanno determinato una sofferenza psicosomatica e  considerando   che  la  depressione è andata diminuendo fino a stabilizzarsi in un equilibrio, comunque, di sofferenza permanente e determinando tale danno biologico complessivo nella misura del 15%, in considerazione delle ripercussioni sul piano estetico e psichico che riguardano  i  profili  fisici,  psichici  e  relazionali.
“Tali  operazioni  - prosegue la Corte - si  innestano  su una   consulenza   di   ufficio   che   conclude   ritenendo   che   il  danno biologico complessivo è quantificabile con difficoltà e va stabilito in via equitativa,  quale risultante di una pluralità di condizioni, come lo stato di ansia, di insicurezza, la compromissione della sfera affetti1va in generale ed il rapporto con l'altro sesso”.

La Consulenza Tecnica d’Ufficio costituisce dunque uno strumento fondamentale per la valutazione del danno biologico anche nella sua componente dinamico-relazionale, al fine di suggerire al giudice gli opportuni adeguamenti personalizzanti dei riflessi esistenziali del danno biologico o di procedere a una quantificazione autonoma di un danno non patrimoniale non derivante dalla lesione dell’integrità psico-fisica. Ciò non toglie, come ribadito dalla Corte di Cassazione nel caso di specie, che la valutazione equitativa del danno biologico rimane un profilo giuridico, non vincolata dal riferimento della C.T.U.

Morte del ciclista in seguito a sinistro con un’auto: risarcimento ai familiari

Premessa: il cd. utente debole

La legge del più forte è anacronistica e primitiva e ha contribuito a creare categorie di automobilisti che pensano che andare veloce, usare il clacson per far spostare pedoni e ciclisti o sorpassare questi ultimi sfiorandoli, sia una prova di virilità.

Nel 2018, pedoni e ciclisti - i cosiddetti “utenti vulnerabili” - hanno rappresentato il 29% del totale delle vittime di incidenti stradali in Europa e il 25% in Italia. Tra 2010 e 2018, sulle strade europee sono morti 51.300 pedoni e 19.450 ciclisti. Sono questi i dati salienti che emergono dall’ultimo rapporto Etsc (European Transport Safety Council: Consiglio Europeo della Sicurezza dei Trasporti).

La riforma che ha portato all'introduzione delle nuove fattispecie di omicidio e lesioni stradali (ne parliamo in un nostro precedente articolo https://bit.ly/3fdslgI) è il frutto di una spinta politica conseguente a fatti anche molto gravi che avevano ricevuto un'importante attenzione mediatica e rispetto ai quali Associazioni di categoria e parenti delle vittime chiedevano a gran voce una risposta forte.

Un’altra rivoluzione che inizia a compiersi è l’uso dei mezzi elettrici: l’incremento del loro utilizzo diminuirà il traffico di auto e probabilmente farà comprendere che la strada non appartiene solo agli automobilisti.

Negli ultimi anni le nostre strade si stanno infatti riempiendo di mezzi di locomozione a propulsione elettrica, per i quali sorge però l’esigenza di un inquadramento all’interno del Codice della Strada, sia per tutelare la sicurezza sulla strada, sia perché regole più chiare incentiverebbero sicuramente la mobilità elettrica. La nuova tendenza è sicuramente la bicicletta elettrica. Facciamo distinzione tra le varie tipologie: la bicicletta a pedalata assistita, è quella dotata di un motore ausiliario elettrico avente potenza nominale continua massima di 0,25 kW la cui alimentazione è progressivamente ridotta e infine interrotta quando il veicolo raggiunge i 25 km/h o prima se il ciclista smette di pedalare; la bicicletta a pedalata assistita deve inoltre avere una potenza massima di 250 watt. Questo tipo di mezzo è considerato dal Codice della Strada (art 50) un velocipede e quindi soggetto alle previsioni dell’art. 68 CdS in quanto a dispositivi di equipaggiamento e alle modalità della guida. Poi ci sono invece le biciclette a motore, in grado di muoversi senza il lavoro muscolare del conducente, che spesso raggiungono velocità ragguardevoli e che, spesso senza che il conducente ne sia a conoscenza, sono in realtà ciclomotori, che circolano senza essere immatricolati e senza assicurazione. I ciclomotori necessitano infatti, per circolare su strada pubblica, di immatricolazione con conseguente rilascio di carta di circolazione e apposizione di una targa, devono essere assicurati e il loro conducente deve essere in possesso di patente di categoria AM ed indossare il casco,  pena l’irrogazione di sanzioni amministrative in caso di violazione di tali regole.

È di pochi giorni fa la notizia della tragedia consumatasi lungo la statale 170 tra Barletta e Andria dove, stando a quanto già accertato, i ragazzi sarebbero stati travolti da un furgone mentre erano in tre sulla stessa bici elettrica e viaggiavano al centro della strada al buio e con le luci spente.

Quale risarcimento per il ciclista morto in seguito all’investimento di un’auto?

Veniamo ora all’aspetto civilistico, ossia al risarcimento che consegue in seguito ad un incidente stradale tra una bici e un’auto che provoca la morte del ciclista.

Nonostante quanto detto in premessa, ossia che il ciclista è l’utente debole, spesso si ritiene che quando questo ultimo sia urtato o investito da un’auto abbia sempre ragione: la bicicletta, per il codice della strada, è un veicolo e come tale chi la conduce deve attenersi alla regole del codice della strada e, in caso di incidente, si applica l’articolo 2054 codice civile che prevede una presunzione di colpa, in assenza di prove, concorsuale al 50%. Questo significa che, in caso di incidente stradale che veda coinvolto un ciclista, prima di valutare la richiesta di risarcimento del danno da parte degli aventi diritto all’assicurazione dell’automobilista, bisognerà controllare che il conducente sul sellino abbia rispettato il codice della strada.

Se viene fornita prova contraria alla presunzione di colpa del ciclista e viene accertato il comportamento colposo (o doloso) dell’automobilista, l’art. 2043 c.c. obbliga questo ultimo a risarcire il danno cagionato dal fatto illecito commesso.  I danni risarcibili a titolo di responsabilità extracontrattuale possono avere natura sia patrimoniale che non patrimoniale: mentre ai fini della risarcibilità dei primi è sufficiente che sussistano tutti gli elementi costitutivi dell’illecito delineati dall’art. 2043 c.c., i danni non patrimoniale sono risarcibili nei soli casi previsti dalla legge, cioè secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata dall’art 2059 c.c.

Circoscrivendo l’analisi all’ipotesi in cui dal sinistro stradale  derivi la morte del ciclista, i familiari, possono chiedere i danni patrimoniali nelle forme del danno emergente (spese sostenute)e del lucro cessante (consistenti nella perdita dei benefici economici che la vittima destinava loro o per legge, ad es., ex artt. 143 o 147 c.c., danno che può essere liquidato sia in forma di rendita (art. 2057 c.c.), sia in forma di capitale. In capo ai congiunti può poi sorgere il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale che trovi causa diretta ed immediata nel fatto dannoso, con conseguenza dei congiunti ad agire iure proprio, quali danneggiati in via diretta dal fatto illecito per la perdita del rapporto parentale. Ad esempio i congiunti potrebbero lamentare il peggioramento delle proprie abitudini di vita e la compromissione delle esigenze familiari.

Diverso è invece il danno non patrimoniale subito dalla vittima e acquisito nel patrimonio giuridico di questa che, al momento della morte, viene trasferito in via ereditaria.

Infatti, qualora la vittima sia rimasta in vita per un lasso di tempo apprezzabile dopo l’evento lesivo, i prossimi congiunti potranno agire per ottenere  il risarcimento del cd. danno biologico terminale, consistente nell’invalidità temporanea totale subita dalla vittima dall’evento lesivo  fino alla morte, calcolabile sulla base delle tabelle relative all’invalidità temporanea, moltiplicando il valore che risulta dal calcolo per i giorni di sopravvivenza della vittima. A tale tipo di danno può sommarsi il cd. danno catastrofale qualora venga dimostrata un’intensa sofferenza psichica patita dalla vittima per aver assistito allo spegnimento della propria vita.

Omessa diagnosi di malformazioni fetali: quali danni?

Ci appariva interessante, dopo quasi un anno dalla sua pubblicazione, riflettere su alcuni passaggi di una sentenza della Corte di Cassazione, la n. 16892 del 25 giugno 2019, che ha fatto lungamente discutere su un tema molto delicato che nella giurisprudenza, evidentemente, cova ancora sotto la cenere. Ci riferiamo alla mancata diagnosi, da parte del personale medico, della presenza di malformazioni del feto, e delle conseguenze dannose risarcibili a seguito di tale negligenza.

Nel caso di specie affrontato dalla sentenza in commento, il bambino era affetto da ectromelia dell’arto superiore sinistro, e non vi era stata nessuna rilevazione della situazione di aplasia di cui era portatore il feto in sede di esami di ecografia eseguiti presso l’ospedale che seguiva la gestante.

La cassazione distingue due possibili danni conseguenti a tale negligenza medica: il danno da nascita indesiderata e il danno da violazione del diritto ad essere informati sulle condizioni di salute del concepito. Andiamo a vederli nel dettaglio.

Il danno da nascita indesiderata

Quando si parla di danno da nascita indesiderata si fa riferimento al danno che si arreca alla madre di un bambino nato con gravi patologie o handicap non conosciuti dalla gestante a causa di una omessa diagnosi prenatale da parte del medico che non ha individuato le malformazioni del feto e che, ove conosciute, avrebbero portato la madre ad abortire.La nascita di un bambino affetto da gravi patologie o handicap, infatti, è indubbio che possa provocare ai genitori sia un danno patrimoniale, consistente nelle gravose spese da sostenere per far fronte alla patologia del figlio, sia non patrimoniale, per il dolore e il turbamento psichico che può derivare dal crescere un figlio in queste condizioni. Questi danni, certamente meritevoli di tutela dovranno essere risarciti laddove la parte lesa adempia al proprio onere probatorio. Segnatamente la donna deve fornire la prova che non avrebbe portato a conclusione la gravidanza se il professionista avesse diagnosticato le anomalie o le malformazioni del nascituro. Tale onere può essere assolto anche attraverso presunzioni desumibili dai dati istruttori, come ad esempio: il ricorso al consulto medico per conoscere le condizioni di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante, il cui accertamento tramite consulenza tecnica risulta fondamentale, pregresse manifestazioni di volontà della madre, in ipotesi, che lascino intuire di una propensione all’opzione abortiva in caso di grave malformazione al feto.

Vi è poi la tematica della prova della sussistenza di rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. Infatti deve essere altresì provata la sussistenza delle condizioni necessarie per procedere all’interruzione della gravidanza dopo il novantesimo giorno di gestazione, consentita solo qualora risulti accertata la sussistenza di processi patologici, tra i quali quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinano un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. Di recente la Corte di Cassazione ha ad esempio escluso che la mancanza di una mano del nascituro possa costituire una rilevante malformazione idonea a determinare un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.

In realtà non si può stilare un elenco di patologie, ma si andrà a vedere caso per caso, in concreto, oltre all’anomalia del nascituro, la particolare sensibilità della madre.

Il danno da omessa acquisizione del consenso informato

La seconda “violazione” riguarda il non aver potuto esercitare un adeguato consenso sul prosieguo della gravidanza stante l’omessa informazione connessa alla mancata diagnosi. In altri termini l’omessa diagnosi da parte del professionista sanitario dell’anomalia o della malformazione del nascituro configura, per la Corte di Cassazione, la violazione da parte dell’esercente la professione sanitaria dell’obbligo di acquisire il consenso informato, il quale costituisce legittimazione e fondamento di qualsiasi trattamento. Il consenso del paziente, infatti, costituisce manifestazione di tutela del diritto all’autodeterminazione e alla dignità della persona. La donna, in altri termini, non è stata libera di scegliere se abortire o meno, quindi è proprio la stessa libertà di autodeterminarsi, che è stata lesa, a prescindere dalla scelta che concretamente avrebbe fatto.

In conclusione, sono due le tipologie di danno che possono essere risarcite in seguito a questa forma di malpractice: i danni, sia patrimoniali che non, derivanti dalla omessa diagnosi delle malformazione del feto che ha impedito di abortire, e il danno costituito dalla lesione del diritto all’autodeterminazione derivante dalla mancata acquisizione del consenso informato.

Da qualche anno invece la giurisprudenza esclude che possa essere risarcito iure proprio il diritto del soggetto, che lamenta una vita piena di disagi a causa delle proprie patologie non diagnosticate quando era un feto, perché il nostro ordinamento non riconosce “il diritto di non nascere” e perché, l’alternativa alla vita sarebbe la morte, procurata attraverso l’aborto.

Lo Studio Medico Legale Barulli è a vostra disposizione per una consulenza nelle città di Bari, Milano e Cremona.

Suicidio nelle strutture sanitarie, tra prevenzione e responsabilità

Ogni anno, nel mondo, i decessi per suicidio ammontano a circa un milione. La prevenzione è l’obiettivo di molteplici ricerche sul fenomeno, finalizzate all’individuazione della miglior combinazione di strategie per il trattamento.

Il suicidio è, infatti, un evento multideterminato, nel quale entrano in gioco fattori di natura biologica, psichiatrica, psicologica, sociale, culturale e circostanziale, che si embricano e si intrecciano variamente tra loro. Il suicidio, quindi, è generato non da una sola e diretta variabile, ma da diverse variabili che interagendo ed integrandosi tra loro in uno stesso individuo, in modo dinamico nel tempo, rappresentano una costellazione di fattori, tra i quali è da annoverare il disturbo psichico.

Analizziamo in particolare il suicidio nelle strutture ospedaliere, per comprendere quali siano le misure di prevenzione da adottare e quali responsabilità possano ricadere sulla struttura sanitaria per omessa vigilanza del paziente che si suicida durante il ricovero.

La prevenzione del suicidio ospedaliero si basa principalmente sulle iniziative che mirano a personalizzare quanto più possibile l’esperienza del ricovero. Il supporto al paziente deve basarsi sull’alleanza terapeutica, che risulta essere uno dei principali fattori protettivi. Altrettanto necessaria a fini preventivi è l’adozione delle misure finalizzate ad incrementare la sicurezza ambientale per tutti gli utenti dell’ospedale.

Al fine di identificare quei pazienti che presentano un elevato rischio suicidario, è opportuno che il personale medico e infermieristico, secondo le specifiche competenze professionali, effettui, in un clima che favorisca la comunicazione, un’attenta e completa anamnesi. I fattori prioritari da rilevare includono pregressi atti auto‐lesivi, eventi avversi recenti (come lutti o malattie), abusi sessuali subiti, familiarità per suicidio. È inoltre fondamentale l’accertamento delle condizioni cliniche. Ovviamente, il rischio di azioni suicidarie è più elevato in alcune condizioni cliniche quali patologia psichiatrica grave (depressione, disturbo bipolare, schizofrenia ed altri disturbi psicotici, disordini della personalità con comportamento aggressivo e impulsivo), dipendenze (da alcool, stupefacenti o psicofarmaci, gioco d’azzardo patologico), sindromi cerebrali organiche, depressione post partum, diagnosi multiple,  patologia terminale, ecc. Altri possibili sintomi o disturbi comportamentali sono rappresentati da disperazione, impulsività, esternazione di idee di suicidio o negazione incongrua/contraddittoria.

Tenuto conto che il rischio suicidario è una variabile dinamica, lo stato del paziente dovrebbe essere rivalutato dal personale medico e infermieristico, giornalmente, tramite un’osservazione personalizzata, allo scopo di sostenere il paziente e cogliere i segni premonitori di un eventuale atto suicidario.

Parallelamente si rende necessaria una valutazione di rischio ambientale, di concerto con le strutture tecniche, finalizzata ad individuare le principali condizioni di rischio presenti nelle specifiche strutture. Si elencano di seguito alcune misure preventive di possibile adozione: utilizzo di posate di plastica e piatti infrangibili, quadri ben fissati al muro con vetri di sicurezza; specchi di sicurezza nei bagni, strumenti e attrezzature (stetoscopi, strumenti taglienti, farmaci) attentamente custoditi, sistemi antintrusione anche nei locali riservati al personale, vetri antisfondamento o ringhiere, maniglie delle porte dotate degli opportuni requisiti di sicurezza, protezione dei raccordi per ossigeno e aspirazione, campanelli di allarme non appesi a soffitto o pareti, eventuali impianti di videosorveglianza in aree non presidiate o critiche.

In conclusione, pur ammettendo che si utilizzino al meglio le risorse relative all’ambiente fisico e di personale di cui la struttura sanitaria dispone, non è detto che la stessa sia in grado di impedire, soprattutto a lungo termine, che un paziente determinato a togliersi la vita, compia il suicidio. Permane l’importanza dei comportamenti cautelari di prevenzione, di prudenza e diligenza in relazione alla tipologia e gravità del rischio, che gli psichiatri sono tenuti ad applicare e documentare in cartella clinica nei riguardi di un paziente con rischio suicidario attuale e concreto.

In via generale sussiste il concetto di inadempimento da parte della struttura nel vigilare sulla sicurezza del soggetto in menomate condizioni di capacità di intendere e di volere, poiché l’ospedale è tenuto ad adottare un atteggiamento di protezione differenziato, a seconda della patologia lamentata dalla persona ricoverata, sin dalla fase di primo intervento.

Il processo di accertamento di profili di responsabilità per omessa vigilanza, involge opportune valutazioni sul nesso di causalità tra le migliori condotte di vigilanza rilevate (poste in essere attraverso mezzi contenitivi di natura meccanica e farmacologica e allo stesso tempo sensibili alla instaurazione di un rapporto medico paziente e della necessaria compliance che il paziente psichiatrico può offrire al piano di cure) e l’evento dannoso.

Grava sulla struttura sanitaria l’onere di dimostrare la prova liberatoria e cioè di avere adottato, nel caso di specie, tutte le cautele richieste volte ad evitare che si verificasse l’evento dannoso. Invero, qualsiasi struttura sanitaria, nel momento stesso in cui accetta il ricovero d’un paziente, stipula un contratto dal quale discendono naturalmente due obblighi: il primo è quello di apprestare al paziente le cure richieste dalla sua condizione, il secondo è quello di assicurare la protezione delle persone di menomata o mancante autotutela, per le quali detta protezione costituisce la parte essenziale della cura.

L’obbligo di vigilanza e protezione del paziente, in quanto scaturente ipso facto dall’accettazione del paziente, prescinde dalla capacità di intendere e di volere di questi, né esige che il paziente sia sottoposto ad un trattamento sanitario obbligatorio. L’unica condizione, è che il suicidio (o tentato suicidio) rientri nello spettro della prevedibilità, per questo è molto importante, identificare – come prima si diceva - il livello di rischio suicidario e l’adeguatezza delle misure messe in atto. La presunzione di cui all’art. 1218 c.c., gravante sulla clinica, è infatti una presunzione di colpa: da essa il soggetto onerato si libera dimostrando di avere tenuto una condotta diligente.

A tal fine assume notevole importanza l’analisi svolta dal medico legale che esamina in dettaglio tutta la documentazione clinica e specialistica relativa al paziente ed esprime un giudizio sull’efficacia e adeguatezza delle misure poste in essere dalla struttura sanitaria convenuta.

Lo Studio Medico Legale Barulli è a vostra disposizione per una consulenza nelle città di Bari, Milano e Cremona.

Rischio epidemiologico: il riscontro diagnostico in caso di sospetta morte per malattia infettiva e diffusiva

Facciamo un po' di chiarezza sull’iter di esecuzione dell’autopsia a scopo diagnostico, prendendo spunto dalla recente vicenda che ha paralizzato il comune di San Marco in Lamis.

Sono numerose le persone intervenute il 3 marzo scorso, alle esequie di un uomo molto stimato e conosciuto, deceduto apparentemente per cause naturali e trasferito poco prima dall’obitorio del vicino ospedale di San Severo.

L’infezione virale da Covid 19 ha già iniziato a propagarsi in Italia e l’uomo è da poco rientrato dalla Lombardia, ma tra i suoi compaesani la percezione del rischio di contagio è ancora così lontana e forse ignorano che il medico di base, ritenendo sospette le circostanze del decesso, abbia allertato gli organi competenti.

Facciamo un passo indietro: sulla base di tale segnalazione, come previsto dal dpr 285/90, il coordinatore sanitario dispone il riscontro diagnostico per sospetta morte dovuta a malattia infettiva e diffusiva.

La salma viene trasferita presso l’ospedale di San Severo, dove si svolgerà l’esame autoptico, volto ad accertare la sussistenza di un rischio epidemiologico.

Il medico legale esegue il tampone post mortem, il cui esito determinerà la modalità di svolgimento delle esequie.

Sappiamo tutti a questo punto come sono andate le cose: il trasferimento della salma presso i locali della chiesa, veniva autorizzato prima di ricevere il riscontro virologico, rivelatosi positivo al Covid 19 solo poche ore dopo.

Ma come sarebbe dovuta andare invece?

È lapalissiano che sarebbe stato doveroso attendere il risultato del test, la cui positività avrebbe imposto le seguenti restrizioni:

Su apposita scheda di morte stabilita dal Ministero della sanità, il medico necroscopo, riconosciuta la causa del decesso in una malattia infettiva e diffusiva, avrebbe dovuto tempestivamente (cioè in deroga a quanto previsto in circostanze ordinarie), inoltrare la comunicazione, valida a titolo di denuncia ai sensi dell’art. 254 del testo unico delle leggi sanitarie, alle autorità competenti.

Trascorso il tempo di osservazione, si sarebbe dovuto sottoporre il corpo alle procedure di deposizione e disinfezione, previste dal protocollo.

In alcun modo sarebbe stato consentito il trasporto del feretro, seppure costituito dalla duplice cassa come previsto dagli articoli 30 e 31 del suddetto dpr 285/90 (ovverossia in caso di accertato decesso per malattia infettiva a carattere diffusivo), in locali differenti da quelli cimiteriali.

Data inoltre la contingenza di manifestazione epidemica della malattia, sarebbe stato vietato anche rendere al defunto le estreme onoranze, diversamente consentite nel rispetto delle prescrizioni dell’autorità sanitaria.

La Procura di Foggia ha aperto un fascicolo di indagine, a carico di ignoti, per l’ipotesi di diffusione colposa di epidemia.

Questo fa riflettere sulla possibilità che le responsabilità siano da ricercare su più fronti: l’autorità giudiziaria non ha infatti ritenuto così scontato imputare il singolo operatore, bensì indagare su un sistema, i cui ingranaggi, agendo al di sopra di regole e procedure, a volte si inceppano, mettendo a rischio il funzionamento dell’intera "macchina” sanitaria.

Al netto di lecite e costruttive dissertazioni, sarebbe sano evitare inutili cacce alle streghe e roghi mediatici, lasciando che i giudizi si emettano nelle sedi preposte, a seguito di opportune indagini.

D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285

Regolamento di polizia mortuaria

Capo I

Denuncia della causa di morte e accertamento dei decessi

1. Ferme restando le disposizioni sulla dichiarazione e sull'avviso di morte da parte dei familiari e di chi per essi contenute nel titolo VII del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238, sull'ordinamento dello stato civile, i medici, a norma dell'art. 103, sub a), del testo unico delle leggi sanitarie, approvato con regio decreto 27 luglio 1934, n. 126 debbono per ogni caso di morte di persona da loro assistita denunciare al sindaco la malattia che, a loro giudizio, ne sarebbe stata la causa.

2. Nel caso di morte per malattia infettiva compresa nell'apposito elenco pubblicato dal Ministero della sanità, il comune deve darne informazione immediatamente all'unità sanitaria locale dove è avvenuto il decesso.

5. L'obbligo della denuncia della causa di morte è fatto anche ai medici incaricati di eseguire autopsie disposte dall'autorità giudiziaria o per i riscontro diagnostico.

2.1. Per la denuncia della causa di morte nei casi previsti dal comma 5 dell'art. 1 si devono osservare, a seconda che si tratti di autopsia a scopo di riscontro diagnostico o di autopsia giudiziaria, le disposizioni contenute negli articoli 39 e 45.

Capo IV

Trasporto dei cadaveri

18.1. Quando la morte è dovuta ad una delle malattie infettive-diffusive comprese nell'apposito elenco pubblicato dal Ministero della sanità, il cadavere, trascorso il periodo di osservazione, deve essere deposto nella cassa con gli indumenti di cui è rivestito ed avvolto in un lenzuolo imbevuto di soluzione disinfettante.

2. È consentito di rendere al defunto le estreme onoranze, osservando le prescrizioni dell'autorità sanitaria, salvo che questa le vieti nella contingenza di manifestazione epidemica della malattia che ha causato la morte.

24.1. Il trasporto di un cadavere, di resti mortali o di ossa umane entro l'ambito del comune in luogo diverso dal cimitero o fuori dal comune è autorizzato dal sindaco secondo le prescrizioni stabilite negli articoli seguenti.

25.1. Per i morti di malattie infettive-diffusive di cui all'apposito elenco pubblicato dal Ministero della sanità, l'autorizzazione al trasporto prevista dall'art. 24 può essere data soltanto quando risulti accertato che il cadavere, trascorso il periodo di osservazione, è stato composto nella duplice cassa prevista dagli articoli 30 e 31 seguendo le prescrizioni degli articoli 18 e 32.

2. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche ai trasporti di cadaveri da o per l'estero previsti dagli articoli 27, 28 e 29 quando la morte sia dovuta ad una delle malattie infettive-diffusive di cui all'elenco previsto nel comma 1.

30.1. Per il trasporto all'estero o dall'estero, fuori dei casi previsti dalla convenzione internazionale di Berlino, o da comune a comune, la salma deve essere racchiusa in duplice cassa, l'una di metallo e l'altra di tavole di legno massiccio.

31.1. Il Ministero della sanità, anche su richiesta degli interessati, sentito il Consiglio superiore di sanità, può autorizzare, per i trasporti di salma da comune a comune l'uso per le casse di materiali diversi da quelli previsti dall'art. 30, prescrivendo le caratteristiche che essi devono possedere al fine di assicurare la resistenza meccanica e l'impermeabilità del feretro.

Capo V

Riscontro diagnostico

(commento di giurisprudenza)

37.1. Fatti salvi i poteri dell'autorità giudiziaria, sono sottoposte al riscontro diagnostico, secondo le norme della legge 15 febbraio 1961, n. 83, i cadaveri delle persone decedute senza assistenza medica, trasportati ad un ospedale o ad un deposito di osservazione o ad un obitorio, nonché i cadaveri delle persone decedute negli ospedali, nelle cliniche universitarie e negli istituti di cura privati quando i rispettivi direttori, primari o medici curanti lo dispongano per il controllo della diagnosi o per il chiarimento di quesiti clinico-scientifici.

2. Il coordinatore sanitario può disporre il riscontro diagnostico anche sui cadaveri delle persone decedute a domicilio quando la morte sia dovuta a malattia infettiva e diffusiva o sospetta di esserlo, o a richiesta del medico curante quando sussista il dubbio sulle cause di morte.

39.2. Quando come causa di morte risulta una malattia infettiva e diffusiva, la comunicazione deve essere fatta d'urgenza ed essa vale come denuncia ai sensi dell'art. 254 del testo unico delle leggi sanitarie, approvato conregio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, e successive modifiche.

45.3. Quando come causa di morte risulta una malattia infettiva-diffusa compresa nell'apposito elenco pubblicato dal Ministero della sanità, il medico che ha effettuato l'autopsia deve darne d'urgenza comunicazione al sindaco e al coordinatore sanitario dell'unità sanitaria locale comprendente ed essa vale come denuncia ai sensi dell'art. 254 del testo unico delle leggi sanitarie, approvato con regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, e successive modifiche.

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Servizio sanitario nazionale e responsabilità medica: la sottile linea tra calunnia e giustizia

Durante questo momento di emergenza sanitaria, risulta più che mai attuale il tema della responsabilità medica, a volte imputata con leggerezza all’operatore, che in situazioni limite può diventare vittima di illeciti e sconsiderati atti di “giustizia fai da te” da parte dei congiunti del paziente.

Secondo le statistiche, in Italia i casi di aggressioni ai danni di personale sanitario, sono oltre 1200 l’anno; cerchiamo di seguito di fornire qualche spunto di riflessione per comprendere meglio il fenomeno.

La percezione comune, suffragata da anni di campagne stampa denigratorie, è che il servizio sanitario nazionale sia inadeguato e popolato non da professionisti il cui operato, datane la complessità, è naturalmente soggetto ad errore, ma da inetti che con dolo e approssimazione, commettono deliberate leggerezze ai danni dei pazienti.

Il medico, nonostante l’alto livello di specializzazione che la professione stessa prevede, non è più considerato un referente di fiducia, ma un vero e proprio nemico da cui difendersi, percezione che sentiamo il dovere di smentire, cogliendo l’occasione per sottolineare l’evidenza inconfutabile dell’eccellenza e abnegazione professionale che il personale medico e ausiliario sta dimostrando in questi giorni difficili per il nostro Paese. Occorre mettere un punto a questa folle girandola di aggressioni (1500 i casi denunciati solo nel 2019), in nessuna circostanza può ritenersi comprensibile un atto intimidatorio o violento nei confronti di un medico nell’esercizio delle sue funzioni.

Ma quali sono le cause?

Il malcontento è spesso generato dalla presenza di protocolli specifici, dei cui meccanismi l’utente non è a conoscenza: si pensi all’assegnazione dei triage di pronto soccorso, a volte giudicata impropria da un osservatore inesperto, per il quale le priorità e la percezione di urgenza, sono comprensibilmente tarate sulla necessità di risolvere il proprio problema. A volte invece il personale è schiavo delle insidie burocratiche, intrappolato nelle maglie del sistema: un sistema non adeguato ai nostri tempi, non sempre al passo con la ricerca e con le esigenze dei pazienti, costretto a fare i “conti” con i tagli di budget e spesso asservito a ragioni politiche non compatibili con i principi della buona pratica medica.

Viviamo inoltre un momento storico nel quale l’accesso a ogni genere di informazione è “apparentemente” immediato, tendiamo dunque ad avere la presunzione di poterci confrontare su qualunque tema e a qualunque livello, forti delle nozioni apprese qua e là sul web, come se avessero lo stesso valore di anni di studi ed esperienza professionale. In campo medico il problema è di grande attualità, data la mole di informazioni che il dottor Google mette a disposizione dei pazienti, che non sempre hanno gli strumenti per filtrare le fonti, e le competenze medico scientifiche necessarie ad unire ordinatamente le tessere del mosaico.

È proprio merito del progresso in campo medico e sanitario, se non siamo più abituati all’accettazione della malattia; l’atto medico è associato a qualcosa di miracolistico che ci avvicina sempre più all’immortalità, ma per converso se qualcosa va storto, lo stesso medico che percepivamo come onnipotente, diventa ai nostri occhi solo un essere umano da perseguire per le proprie mancanze.

Mancanze, errori, fallimenti... Questo è tutto ciò che rimane a seguito di una prestazione sanitaria che non ha soddisfatto delle aspettative: la compulsiva ricerca di un errore dell’operatore o di una falla del sistema che sfocia spesso nell’inappropriato ricorso all’azione legale, che possa risarcire un dolore che a volte, di fatto, non ha responsabili.

Anche in un momento di rabbia e sconforto, è necessario mantenere la doverosa lucidità, evitando di generare inutile scompiglio e commettere clamorosi errori di valutazione; a tale proposito è fondamentale che si radichi nell’utenza la consapevolezza che l’operato del medico non è sindacabile, se non da un collega professionista competente, “alleato” della verità fattuale, che solo attraverso lo studio approfondito della letteratura medica e scientifica, sarà in grado di valutare caso per caso se l’atto medico sia conforme alla lege artis.

I medici sono chiamati a fare delle scelte e ad applicare delle “competenze” che hanno poco in comune con la mera cultura di base che può appartenere a chiunque abbia accesso ai mezzi di informazione; per fare un parallelismo è sostanziale la differenza tra un letterato emerito ed un amante della lettura.

Se si ritiene di aver subito un danno alla salute, cagionato dalla negligenza del personale medico o dall’inefficienza della struttura ospite, uno specialista in Medicina Legale sarà in grado di fare luce sulla vicenda. Attraverso un accurato esame del carteggio sanitario, avvalendosi della collaborazione di colleghi specialisti, competenti nella disciplina di riferimento, si procederà innanzitutto alla verifica dell’effettiva sussistenza di un nesso tra la condotta del personale sanitario e il danno subito, nel qual caso se ne potrà quantificare l’entità, accompagnando il paziente nell’iter di richiesta di risarcimento o accertamento giudiziario.

È bene precisare che in tema di malpractice medica, una scrupolosa valutazione Medico Legale preliminare, rappresenta un vantaggio anche nel caso in cui dia esito negativo, in quanto mette al riparo da lunghe battaglie legali e dall’ingente esposizione economica che ne consegue, anticipando di fatto la probabile conclusione a cui giungerebbe il Consulente Tecnico d’Ufficio in caso di contenzioso.

I tragici eventi che pervadono il nostro Paese in questo periodo, hanno momentaneamente stravolto il sentire comune, riabilitando l’immagine del servizio sanitario nazionale, di fatto popolato di professionisti capaci, disposti a grandi sacrifici, investiti di enormi responsabilità in nome del bene comune.

Resta aperto il quesito sul futuro: al termine di questa emergenza, la memoria ci aiuterà ad essere un po' più cauti e oculati nella valutazione delle prestazioni sanitarie? Noi ce lo auguriamo, confidando che sia proprio la memoria ad accompagnare anche le istituzioni in una quanto mai doverosa inversione di rotta.

Lo Studio Medico Legale Barulli è a vostra disposizione per una consulenza nelle città di Bari, Milano e Cremona.

Le protesi di polso: aspetti clinici generali e definizione medico legale del danno biologico

Aspetti clinici generali

La sostituzione protesica di un’articolazione degenerata è una pratica diffusa e ormai consolidata, che offre una soluzione a medio-lungo termine ai problemi correlati al danno articolare.

Di più recente diffusione in ambito di protesi articolari, è la protesi totale di polso, atteso che la patologia degenerativa riguardante tale distretto, è percentualmente meno frequente rispetto a patologie simili afferenti altri distretti articolari (anca, ginocchio ecc.) ed in considerazione delle molteplici soluzioni chirurgiche alternative esistenti (resezione prima filiera carpale, artrodesi parziali o totali di polso).

Le protesi di polso si rivelano un’ottima soluzione per i pazienti con grave artrosi primitiva o post-traumatica e per quelli affetti da patologie come l’artrite reumatoide, che hanno esigenze specifiche e desiderano preservare il movimento. L’artrosi in stadio avanzato del polso, con danno dell’articolazione radio-carpica e della medio-carpica (articolazione del semilunare con il capitato), sfociava tradizionalmente nell’indicazione di artrodesi totale di polso, spesso non ben tollerata per l’importante limitazione funzionale e comunque non esente da complicanze. Per contro, la sostituzione protesica del polso presenta comunque, propri rischi e proprie complicanze ed è sconsigliata per i pazienti con alte richieste funzionali[1].

La protesi può essere parziale se sostituisce solamente una componente ossea carpale, o totale, indicata e fruttuosa, per quei pazienti che soffrono di dolore e/o perdita di funzione in quanto affetti da artrite reumatoide, SNAC (Scaphoid Non-union Advanced Collapse) o SLAC (Scapho-Lunate Advanced Collapse), oppure da artrosi primaria o post-traumatica.

Tuttavia, è bene precisare che la stabilità dell’impianto di protesi totale e la sua funzionalità, possono essere influenzate negativamente da diversi fattori: la scarsa qualità ossea, i gravi deficit neurologici, tendinei o muscolari e le infezioni, sono i principali.

Ma vediamo quali sono le complicanze, e i relativi tempi di guarigione, potenzialmente derivanti dall’impianto protesico: tra le più comuni, come per qualsiasi altro intervento vi sono l’infezione e lo scollamento (asettico o settico); una complicanza invece tipica solamente delle protesi di polso, che non si verifica invece con le protesi dell’arto inferiore, è costituita dalla rottura tendinea.

Per quanto concerne i tempi di guarigione, in caso di protesi totale, dopo un ricovero di 2-4 giorni, i pazienti sono sottoposti ad un trattamento fisiatrico piuttosto lungo (2-3 mesi circa), con ripresa dell’attività lavorativa a non elevato impegno energetico, dopo circa 3 mesi dall’intervento. I soggetti sottoposti ad impianto di protesi parziali sono solitamente ricoverati per 2-3 giorni, seguono un percorso riabilitativo di 2 mesi circa e possono riprendere l’attività lavorativa, senza elevato impegno enrgetico della mano, dopo un paio di mesi dall’intervento.[2]

La protesi più utilizzata è quella di Swanson in elastomero di silicone rinforzata da due semianelli in titanio.

Dopo un intervento di protesi totale, il polso dovrà essere mantenuto in una posizione di riposo grazie ad una stecca gessata o ad un tutore per circa 3-4 settimane. La ripresa del movimento avviene solitamente senza alcun dolore, così che il paziente possa gradualmente intensificare gli esercizi di mobilizzazione attiva potendo raggiungere un’escursione articolare nell’ordine del 50% della normale escursione.

Risulta ovvio che l’intensità degli sforzi cui il polso verrà sottoposto determinerà la durata e l’efficacia dell’impianto protesico. Sono ovviamente da evitar attività lavorative che richiedono gestualità ripetitiva e l’utilizzo di strumenti vibranti come il martello pneumatico.

Proposta Valutativa del danno biologico

Nell’eccellente testo delle “Protesi dell’apparato locomotore (dalla clinica alla medicina legale) Luigi Palmieri” viene segnalato come risulti evidente, in termini di problematiche afferenti la valutazione del danno, come in caso di protesi di polso la valutazione delle sequele sia sostanzialmente da parametrare a realtà esitali quali anchilosi con artrodesi.

In un interessante lavoro di Bonziglia, Sergio Quaranta, Federico Battiston e Bruno Ferrero Matteo¸ in Rivista Italiana di Medicina Legale e Del Diritto in campo sanitario, viene proposta una valutazione medico-legale del danno biologico derivante dall’impianto di una protesi al polso.

L’articolo sottolinea in primo luogo come sia  opportuno considerare che ogni intervento protesico del polso, a seconda del tipo di protesi utilizzata, richiede comunque una quota di asportazione/demolizione ossea, di cui va tenuto conto nella valutazione medico-legale del danno biologico residuo a tale procedura; alcune protesi richiedono infatti una importante demolizione osteo-articolare, con conseguente maggior sovvertimento dell’anatomia loco-regionale e più cospicua componente protesica sostitutiva. Altro elemento da prendere in considerazione a fini valutativi è la tendenza di tali tipi di protesi ad una scarsa stabilità passiva; si tratta infatti di manufatti protesici di piccole dimensioni (in particolare quelle delle ossa del carpo), soggette ad un rilevante sovraccarico funzionale e contenute non da strutture muscolari bensì da legamenti e capsule articolari. Tale caratteristica assume particolare rilevanza non solo a seconda dell’età del soggetto e della sua attività lavorativa, ma anche in termini di danno futuro; una protesi che va incontro ad un’usura precoce, stante il fatto che una sua sostituzione presenta notevoli difficoltà tecniche e scarsi risultati funzionali, sarà trattata con un intervento di rimozione ed artrodesi e conseguente maggior danno, in particolare se riguarda un soggetto di età non avanzata e ancora in attività lavorativa, e comunque con ripercussioni sulle attività ludico-sportive”.[3]

Si riportano di seguito le proposte valutative del suindicato lavoro, nelle quali viene assegnato un valore percentuale, in termini di danno biologico, alla perdita dell’estensione della radio-carpica: del 7% nell’arto dominante (6% in quello controlaterale) e un 5% (4% in quello controlaterale) all’abolizione della flessione.

“Per le limitazioni funzionali parziali della estensione dorsale, partendo dallo zero assegnato alla posizione intermedia della radio-carpica, la perdita degli ultimi 25 gradi della estensione (circa 1/3) potrà essere stimata nell’1% e la perdita di circa la metà del movimento (movimento consentito fino a circa 40º) il 3%; per quanto riguarda la flessione palmare, la perdita di un 1/3 del movimento nell’arto dominante (con flessione consentita fino a 60º) può essere stimata in circa mezzo punto percentuale, la perdita della metà della flessione in un punto e mezzo percentile e quella di 2/3 (flessione consentita sino a 30º) in due punti e mezzo, valori che non devono sembrare limitativi se si tiene conto che il primo terzo di movimento è quello funzionalmente più importante”.[4]

Per una migliore definizione medico legale del danno biologico residuo in rapporto ad una protesi di polso si è ritenuto indefettibile una disamina comparativa fra i diversi bareme più in uso in ambito medico legale: ”linee guida per la valutazione medico legale del danno alla persona in ambito civilistico-Ed. Giuffrè” che costituisce di fatto l’unico riferimento di valutazione del danno nel nostro Paese, “Evaluation du dommage corporel di L. Melennec” ed infine le tabelle dell’AMA “Amercan Medical Association”.

Mentre per le tabelle Italiane si ipotizza un tasso del 12% e 10% (arto dominante o non dominante) relativamente alla anchilosi radio carpica, il Melennec, la cui filosofia valutativa risulta più complessa rispetto a quella usualmente utilizzata in Italia, statuisce tassi crescenti di pro cento di danno, che partendo dal 4-5% si spinge fino al 15-20% per le anchilosi in posizione favorevole o sfavorevole, per l’AMA che determina la quota di danno in rapporto alla valutazione motoria generale dell’arto con gap progressivi ribaltati su un grafico in rapporto alla quota di perdita funzionale e per l’anchilosi estensoria risulta pari al 21% della totale.

Come ricordato in precedenza il posizionamento di una protesi di polso, al di là del danno biologico, calcolabile scolasticamente secondo i criteri di merito innanzi esposti, induce un sensibile riflesso negativo in termini di pregiudizio lavorativo e di conseguenza nell’espletamento di sport, specie quelli che implichino in prima istanza, l’utilizzo delle mani (si pensi alla pallavolo, alla pallacanestro, pallamano ec.ecc ed alla sede della lesione, arto dominante o meno.).

Risulta di evidenza solare la difficoltà di correlare al noto danno biologico il gap, tutt’altro che indifferente, indotto da una protesi di polso in relazione a siffatti parametri. In buona sostanza ci si trova a dover procedere ad una sorta di “personalizzazione” del danno, e non potrebbe essere diversamente, considerato che i riflessi negativi su cennati risultano assolutamente differenti, come già detto, in relazione all’età del leso, alla attività lavorativa esercitata prima dell’intervento, agli eventuali sport praticati nel passato ed alla sede della lesione (su arto dominante o meno).

Nella specie si è inteso far riferimento, nell’incedere dialettico di tale relazione, ad un soggetto molto giovane, anni 26, metalmeccanico e pallavolista semiprofessionista che a seguito di sinistro della strada riportava una frattura pluriframmentaria scomposta del polso destro che veniva trattata con impianto di protesi totale di polso. Quello che ci si chiede è il principio metodologico ispiratore di tali ulteriori forme di danno e la loro valutazione.

[1] Bonziglia, Sergio Quaranta, Federico Battiston, Bruno Ferrero Matteo, Rivista Italiana di Medicina Legale e del Diritto in campo sanitario
[2] Bonziglia, Sergio Quaranta, Federico Battiston, Bruno Ferrero Matteo¸ Rivista Italiana di Medicina Legale e Del Diritto in campo sanitario
[3] Bonziglia, Sergio Quaranta, Federico Battiston, Bruno Ferrero Matteo¸ Rivista Italiana di Medicina Legale e Del Diritto in campo sanitario
[4] Bonziglia, Sergio Quaranta, Federico Battiston, Bruno Ferrero Matteo¸ Rivista Italiana di Medicina Legale e Del Diritto in campo sanitario

Infortunio sportivo: responsabilità civile e quantificazione dei danni

Infortunio sportivo: responsabilità civile e concetto di rischio consentito

Ogni atleta ha diritto ad essere tutelato dagli eventi dannosi che può subire durante la pratica di uno sport; a tal fine la giurisprudenza ha creato dei modelli di imputazione della responsabilità da infortunio sportivo in base alle diverse attività sportive, sia amatoriali che agonistiche.

Mentre inizialmente le sentenze si pronunciavano sui singoli casi, senza poter utilizzare uno standard visto il vuoto normativo in materia, nel corso degli anni si sono adottati dei principi univoci per la determinazione della responsabilità in ambito sportivo.

Un primo criterio individuato è il rischio sportivo consentito, ossia il principio secondo il quale, l’atleta, consapevole dei potenziali danni a cui va incontro durante lo svolgimento della sua attività, ne assume la responsabilità, esonerando dal risarcimento i comportamenti che, nell’ambito di una determinata disciplina sportiva, saranno considerati leciti, anche se non regolari.

E’ chiaro che per stabilire i confini della liceità, sia stato necessario identificare degli standard di condotta, ricorrendo alle varianti del caso per adattare gli stessi a ciascuno sport; è opportuno a tale scopo, considerare le enormi differenze che possono emergere nella valutazione di un evento occorso durante lo svolgimento di una disciplina che preveda scontro necessario (box, arti marziali), rispetto ad uno verificatosi durante un’attività ad incidenza ridotta o nulla di violenza.

Tali confini saranno tanto più ampi, quanto più l’attività preveda alte prestazioni competitive, quindi più severi e stringenti nella pratica sportiva amatoriale e durante gli allenamenti.

Per la determinazione della colpa, la giurisprudenza fa riferimento ai parametri di ciascuna disciplina, tuttavia non è sempre possibile imputare una responsabilità civile in caso di lesioni personali, a colui il quale abbia commesso un atto falloso senza l’intenzione di ledere, e viceversa non sempre verrà assolto da tale responsabilità il soggetto che, pur agendo nel rispetto del regolamento sportivo, abbia provocato delle lesioni.

Saranno considerati responsabili delle lesioni procurate e di illecito sportivo tutti gli atleti che individuano l’attività sportiva come un pretesto per recare volontariamente un danno all’avversario.

Ai fini del risarcimento, quando si riscontra una colpa grave a carico dell’atleta, egli verrà considerato responsabile, civilmente e penalmente, e obbligato al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e biologici che il suo atto ha causato al soggetto danneggiato.

Negli sport di contatto o violenti è necessario effettuare una distinzione tra comportamento colposo e doloso.

Si parla di dolo quando l’atto violento non è contemplato dal regolamento dello sport praticato e si incorre quindi nel reato di lesioni dolose, in quanto i danni sono stati causati senza alcun rapporto di funzionalità con lo sport praticato (come ad esempio un calcio sferrato durante un incontro di pugilato).

Si ha invece condotta colposa, quando il comportamento, seppur violento e vietato dal regolamento, rientra comunque in un contesto agonistico, riconducibile allo sport in questione.

Quindi sintetizzando, quando l’atleta segue le regole di gioco e contestualmente non supera il rischio consentito, non si può parlare di illecito; egli non sarà dunque tenuto al risarcimento di alcun danno.

Il danno derivante dall’infortunio sportivo: valutazione

Quando l’atleta infortunato è un agonista di alto livello, l’evento lesivo, può essere fonte di un grave pregiudizio patrimoniale, la cui entità supera di gran lunga la cifra liquidata dalle compagnie di assicurazione, a fronte del mero danno biologico.

Anche un infortunio di lieve entità, potrebbe pregiudicare la prosecuzione di una carriera sportiva, o ridurre sensibilmente il valore di ingaggio dell’atleta.

Sarà il medico legale ad eseguire una accurata valutazione del danno patrimoniale da perdita o riduzione della capacità di intraprendere attività sportiva agonistica, e del relativo pregiudizio della possibilità di produrre redditi equiparabili a quelli garantiti da tale professione; egli infatti terrà conto durante la stima del valore dell’atleta, non solo dei redditi relativi ai precedenti ingaggi da parte delle società sportive, ma anche di eventuali contratti pubblicitari e di sponsorizzazione.

Una volta attribuito tale valore, si procederà con il calcolo presuntivo della mancata carriera sportiva, calcolata in termini di anni residui di attività in assenza del danno biologico derivante dall’evento lesivo occorso. Si terrà conto pertanto sia dell’età al momento dell’infortunio, sia della progressiva diminuzione di valore, legata all’avanzare dell’età.

Diversa sarà la valutazione del danno da perdita di chance, nel caso di atleti dilettanti che a causa di infortunio, abbiano visto sfumare la possibilità di assurgere al livello professionistico, per i quali dovrà sussistere, oltre al nesso causale tra evento e lesione, la possibilità concreta ed attuale di pregiudizio di un vantaggio futuro.

Il danno da perdita di chance lavorativa quando il danneggiato è un minore

Il fatto

Una ragazzina di 17 anni, a seguito di un incidente stradale, riportava postumi macro-permanenti che la consulenza tecnica d’ufficio medico-legale quantificava nella misura di 40 pt percentuali di invalidità.

In primo grado, veniva riconosciuto alla minore un risarcimento a titolo di danno biologico e di danno da perdita di chance lavorativa. I convenuti proponevano e vedevano parzialmente accolto l’appello avverso tale decisione, riformata in punto di riconoscimento del danno da perdita di chance: la Corte di merito riteneva insussistente il danno da perdita di chance per mancanze di prove in ordine alle prospettive di carriera universitaria e lavorativa impedite dall’evento lesivo. Invero, l’onere di provare la sussistenza di tale danno, incombe sulla parte attrice, la quale si era limitata ad allegare le risultanze della c.t.u. riportante i postumi invalidanti derivati dal sinistro e a provare il suo pregresso buon rendimento scolastico. Il mancato riconoscimento del danno da perdita di chance (rectius: la contraddittoria e insufficiente motivazione sul punto) è stato motivo di ricorso in Cassazione da parte del danneggiato.

In diritto

Il danno da perdita di chance lavorativa derivante da menomazione dell’integrità psicofisica non è facilmente quantificabile qualora si tratti di minore non percettore di reddito. La contingente assenza di guadagni determina infatti un’incertezza sulla qualificazione e quantificazione delle varie voci di danno difficilmente superabile.

Non stupisce quindi che, nel caso di specie, la Corte di Cassazione abbia confermato quanto statuito dalla Corte di Appello, negando il risarcimento del danno da perdita di chance in quanto non sufficientemente provato; l’incapacità lavorativa, proprio perché riferita ad un futuro incerto, si caratterizza come perdita di chance la cui risarcibilità è ammessa solo a condizione che sia provato, ancorché attraverso presunzione, che se il soggetto non avesse subito il danno avrebbe conseguito una realizzazione economica migliore.

L’incapacità lavorativa

Il danno alla salute (o danno biologico) è ormai considerato come lesione dell’integrità psicofisica della persona, bene giuridico costituzionalmente riconosciuto (art 32 Cost.). Invece, l’incapacità di produrre ricchezza, costituisce un’ulteriore conseguenza del danno e integra un profilo di pregiudizio differente, a carattere patrimoniale. A tale conclusione si è pervenuti successivamente, in quanto ab origine il danno alla salute veniva collocato nei danni patrimoniali in quanto, ciò che veniva risarcito, era il riflesso di tale danno sulla capacità reddituale della vittima. La pretesa attribuzione di un valore economico al bene-salute, parametrato al reddito prodotto dalla vittima prima del fatto illecito, unicamente in virtù dei riflessi lavorativi-reddituali discendenti dall’integrità psicofisica, generava forti distorsioni, in particolare nel caso di soggetti minori non percettori di reddito: si iniziò infatti a ricorrere ad escamotages quali il c.d. “reddito figurativo” o la categoria dell’“incapacità lavorativa generica.

Si è tuttavia poi giunti alla connotazione del danno alla salute come lesione dell’integrità psico-fisica risarcibile in re ipsa. Da quel momento la diminuita capacità lavorativa ha assunto rilevanza autonoma: si tratta di un pregiudizio a carattere patrimoniale che spesso, ma non necessariamente consegue al danno biologico. Ove si sia in presenza di un accertato danno biologico, si può spesso riscontrare una derivante diminuzione di capacità lavorativa che può a sua volta essere alla base di una perdita reddituale: il rapporto tra danno biologico e diminuita capacità di guadagno si pone in termini ipotetici, ove il primo è condizione necessaria ma non sufficiente ad implicare il secondo, la cui sussistenza è dunque meramente eventuale. Il termine intermedio di tale rapporto sarebbe dato dalla capacità lavorativa, definita generica proprio in quanto attitudine generale alla produzione di reddito , estranea rispetto al lavoro certo e concreto che qualificherebbe invece la capacità di guadagno (definita al contrario come “capacità lavorativa specifica”). Non a caso, tale categoria di capacità era stata ascritta al danno non patrimoniale: il connotarsi come mera attitudine generale al lavoro faceva sì che questa rientrasse, più propriamente, nel danno biologico, anch’esso parimenti a-reddituale. La progressiva evoluzione del danno biologico ha tuttavia reso superflua la categoria dell’incapacità lavorativa generica.

Per tali motivi, nel caso del danno al minore, l’unico riflesso in termini di capacità lavorativa che potrebbe derivare dal danno biologico, assume la connotazione di perdita di chance.

Perdita di chance

Le pronunce che distinguono fra incapacità generica e specifica hanno, come si è detto, una rilevanza ormai residuale, e la sentenza in commento avalla tale orientamento.

Tuttavia il danno da incapacità lavorativa può essere identificato come perdita di chance, inquadrata talora nella categoria del danno patrimoniale, che sia un lucro cessante o un danno emergente, talaltra nella categoria, opposta, del danno non patrimoniale. In realtà, la perdita di chance si atteggia diversamente a seconda che ad esser lesa sia un’occasione riferita ad valore patrimoniale o meno. Nel caso di specie “le chances che si assumono perdute attengono alla futura attività lavorativa del soggetto danneggiato a causa dei postumi permanenti della lesione della salute », quindi « il danno c.d. da perdita di chance si configura come danno patrimoniale futuro, perciò diverso ed ulteriore rispetto al danno alla salute, a carattere invece non patrimoniale”.

Come si è sopra accennato, nel caso del minore non precettore di reddito, la situazione si complica.

Nel caso del minore che voglia ottenere i danni derivanti dalla perdita di "chance" - che, come concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene, non una mera aspettativa di fatto ma un'entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione - ha l'onere di provare, pur se solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato e impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta.

Con la precisazione che quando, come nel caso di specie, le chances che si assumono perdute attengono alla futura attività lavorativa del soggetto danneggiato a causa dei postumi permanenti della lesione della salute, il danno c.d. da perdita di chance si configura come danno patrimoniale futuro, perciò diverso ed ulteriore rispetto al danno alla salute, a carattere invece non patrimoniale. Pertanto, la sola dimostrazione dell'esistenza di postumi invalidanti non è sufficiente a far presumere anche la perdita della possibilità di futuri guadagni o di futuri maggiori guadagni, spettando al danneggiato l'onere di provare, anche presuntivamente, che il danno alla salute gli ha precluso l'accesso a situazioni di studio o di lavoro tali che, se realizzate, avrebbero fornito anche soltanto la possibilità di maggiori guadagni. L'unico accenno contenuto nel ricorso ad una non meglio precisata "conferma" da parte del preside della scuola circa il buon rendimento scolastico della ragazza è privo di specificità, poiché la ricorrente non chiarisce né il mezzo di prova testimonianza o documento - cui fa riferimento né il contenuto ed il luogo di reperimento del dato probatorio nel fascicolo di parte o d'ufficio.